La “chiesa nuova” dei Filippini: le vicende architettoniche
di Loredana Olivato (tratto dal catalogo disponibile in portineria dei padri)
«Quarantatrè anni ufiziò la Congregazione nostra nell’antica chiesa di San Fermo Minor di Braida, edificata sulla fine del secolo decimo quarto dà monaci neri di S. Benedetto; risguardandola sempre mai con dispiacere e cordoglio perché angusta, incomoda, sconvenevole, e incapace d’esser ridotta a buona forma e mediocre decenza; e rammaricandosi grandemente che le mancasse il modo di fabbricarsene una a suo piacere e bisogno»: così si esprimeva, il 31 dicembre 1775, alla fine di una breve scrittura, padre Giovanni Bevilacqua, prefetto delle fabbriche, a proposito delle spese occorse per la «chiesa nuova»1. Di fatto, in quanto nominato «prefetto della fabbrica», si prodigava a narrare le vicende della medesima, soffermandosi soprattutto sulle spese occorse e sui benefattori intervenuti: sostanzialmente sui dati di carattere economico che cercava in tutti modi di giustificare; ma fornendo tuttavia, sia pur indirettamente, indicazioni importanti per quanto riguarda la genesi dell’opera2. Sappiamo che, a partire dal 1756, si comincia a pensare al restauro integrale dell’antico edificio che, costruito sulla fine del XIV secolo e dedicato ai Santi Fermo e Rustico, era di modeste dimensioni, con la facciata diversamente impostata dall’attuale: rivolta non verso il corso dell’Adige (come oggi appare) ma verso la strada adiacente. L’arrivo in città dei seguaci di san Filippo Neri cui la chiesa era stata destinata nel 1713 aveva implicato la necessità di maggiori spazi e di maggior decoro per una comunità religiosa allora in espansione. Non solo. Nel momento in cui si meditava su come aggiornare le strutture dell’antico luogo di culto, che certo doveva essere ampliato per accogliere i devoti della nuova Congregazione, diveniva quasi d’obbligo riposizionare la nuova facciata verso l’arteria di maggior scorrimento, lungo il corso del fiume, recentemente riqualificata dagli edifici funzionali del Macello e della Dogana. Questi, costruiti secondo il nuovo linguaggio classicista cui la città si era andata adeguando - la renovatio urbis proclamata da Scipione Maffei e dai suoi seguaci - erano divenuti poli attrattivi per il possibile sviluppo futuro dell’intera zona. Secondo la testimonianza delle fonti erano stati interpellati architetti locali di qualche fama, come Michelangelo Castellazzi o Girolamo Dal Pozzo i quali, fra 1754 e 1756, presentarono varie proposte progettuali in ordine al nuovo edificio3. I pareri dei religiosi, tuttavia, in relazione al nome dell’artefice che si sarebbe assunto il compito della ristrutturazione, dovettero essere discordi. Tanto che si decise di interpellare anche un professionista veneziano, Andrea Camerata, il quale, a sua volta, inviò a Verona i propri suggerimenti progettuali che, messi ai voti nella Congregazione, ottennero parere favorevole e vinsero la contesa4. Il 28 gennaio 1759, una solenne cerimonia benediceva la posa della prima pietra5. Ci chiediamo quanta parte avesse avuto nella scelta dei Padri il prestigio di un tecnico in arrivo dalla Serenissima a fronte di idee, forse anche suggestive, ma legate all’establishment propriamente veronese6. E la scelta, a nostro avviso, suona proprio in ordine alla volontà di sganciarsi da un contesto localistico. Camerata7, a quanto narra il prefetto Bevilacqua, presentò nel novembre 1757 ben quattro disegni progettuali, dettagliati e di notevoli dimensioni - «travagliati con estrema esattezza, diligenza e finimento, e di grandezza più che mezzana» - con la planimetria, gli spaccati e la facciata dell’edificio con ogni dettaglio utile alla costruzione8. Dalla consultazione di altri documenti che riferiscono nei dettagli, anno dopo anno fino al 1782, la successione delle diverse spese effettuate per la nuova fabbrica, non La “chiesa nuova” dei Filippini: le vicende architettoniche Loredana Olivato figurano ulteriori esborsi per i viaggi dell’architetto Camerata da o per Venezia, mentre si elencano minuziosamente tutti i pagamenti per i materiali impiegati («sabbion», pietre, «mattoncini», «giarra», calcina, ferro, ecc.) e per le maestranze all’opera («marangoni», «spezzapiera», «murari», fabbri, ecc.)9. Si deduce che il compito di Camerata si fosse esaurito nella stesura dei minuziosi disegni progettuali e per questa ragione ci spiegheremmo come mai durante i lavori, per problemi di non facile soluzione relativi alla copertura della navata, venissero chiamati a consulto ben conosciuti architetti locali quali Francesco Schiavi (nel 1765) o Adriano Cristofali (nel 1766)10. Il dettaglio delle spese ci offre anche notizia sul complesso della manodopera impiegata dove troviamo nomi noti quali gli scultori Angelo Finali o Giovan Battista e Angelo Sartori11; le spese si dipanano anno per anno, raggiungendo il momento di maggior concentrazione negli anni
fra 1765 e 1770 quando l’opera era entrata nella fase più complessa.
Così come oggi ci appare (al di là delle distruzioni avvenute nell’ultimo conflitto mondiale e che riguardarono la zona dell’abside e dell’oratorio12) la chiesa di San Fermo Minore di Bra’ (o dei Filippini) appare progettata in ordine a quel linguaggio neoclassico di stretta osservanza che ormai da decenni, in nome e nel ricordo dei grandi architetti del Rinascimento quali Andrea Palladio o, a Verona, Michele Sanmicheli, si era affermato nel contesto veneto. La facciata si imposta su un doppio frontone sovrapposto (seguendo l’invenzione palladiana di San Giorgio in Isola) dove la parte centrale - retta da semicolonne e semipilastri di ordine gigante impostati su slanciati plinti - che sostiene l’alto timpano triangolare sottolineato dai dentelli fortemente sporgenti, dimostra di essere il perno della composizione. La novità è rappresentata dall’alternanza, inconsueta, delle semicolonne con i semipilastri cui, nelle ali laterali, corrispondono invece delle più composte ed appiattite paraste13. La finestra termale che coincide, nel piano superiore, con il portale d’ingresso, appare riquadrata con sapiente eleganza dalle molteplici cornici, dalle edicole e dai contorni rettangolari che governano gli spazi. Nell’insieme un concentrato di citazioni palladiane (oltre a San Giorgio, San Francesco della Vigna - per la finestra termale al centro della facciata -; mentre il portale richiama quello della chiesa del Redentore) e veneziane dove ritroviamo allusioni ad opere allora felicemente concluse da Andrea Tirali (San Vidal) o Giorgio Massari (chiesa dei Gesuiti). Il tutto, si direbbe, allo scopo di avanzare una soluzione formale - ancorché non clamorosamente innovativa - difforme e slegata dalla “lingua” prediletta degli operatori locali. Se, comunque, la soluzione dell’esterno appare, nell’insieme, coerentemente ispirata a moduli di pacata eleganza, l’interno risulta meno coeso e più dipendente dalla tradizione senza un’esplicita ricerca di novità. Ancorché la pseudo-doppia fronte esterna suggerisse per la zona destinata ai riti un ambiente tripartito in navate, viene scelta la soluzione ad aula unica con profonde cappelle laterali, che ben s’adegua alle esigenze controriformistiche post-tridentine, ma che - dato lo scarso spazio a disposizione - finisce per concentrare in un invaso ridotto soluzioni architettoniche (colonne di cromia differente, edicole con statue, cornici aggettanti, ecc.) che forse avrebbero avuto bisogno di maggior respiro e imponenza. Ancora una volta i richiami formali riportano a Venezia (alla chiesa dei Gesuati o all’interno di San Marcuola di Massari). Sebbene la pagina architettonica compositiva, nel suo complesso, risulti alla fine convincente «per la felicità dei rapporti e la sostenuta eleganza delle forme»14.
1 Verona, Archivio di Stato (d’ora innanzi ASVr.), Monasteri maschili di città, San Fermo in Braida, Registri, n. 113. Mi corre l’obbligo di ringraziare la Direzione ed il Personale dell’Archivio di Stato per la cura e la cortesia sempre prestate nell’aiutare gli studiosi che a loro si rivolgono. Ancora: un grazie particolare all’amico Pierpaolo Brugnoli, prodigo di suggerimenti e utilissime informazioni. Il manoscritto cui si fa riferimento consta di poche carte, scritte su entrambi i versi con grafia composta e di facilissima lettura, con una breve introduzione sulle vicende relative al nuovo edificio. Lo scopo della ricerca che, lungi dal voler ricostruire la storia della fabbrica, insiste sulle spese intercorse, i modi per procurare i fondi necessari, le elemosine ricevute all’uopo, ecc., fornisce, indirettamente, notizie utili per cogliere come si venne sviluppando il progetto della nuova chiesa. Si veda anche la nota successiva.
2 Il più completo studio sulla chiesa di San Fermo Minore di Bra’ (o dei Filippini), sul rione dell’Adige su cui sorge, sulle vicende spirituali che coinvolsero la Congregazione e l’edificio, è il bel volume (non tuttavia di carattere scientifico) di P. L. Facchin, Un rione sull’Adige. Tempi, luoghi e figure ai Filippini, Verona s.d.); per interventi precedenti, oltre alle consuete fonti quali G. B. Biancolini (Notizie storiche delle chiese di Verona, Verona 1749, II, pp. 193 e sgg.), si veda P. Brugnoli (Le Strade di Verona, Verona 1999, II, pp. 265-266.) e, ancora, dello stesso autore, anche se non esplicitamente indicato (“Notiziario della Banca Popolare di Verona”, 2001, 62, n. 1, pp. 14-25), con un saggio specifico ricco di notizie, dove si fornisce anche ogni precedente riferimento alle fonti e ai documenti d’archivio, compreso il testo del prefetto Bevilacqua citato alla nota precedente. Inoltre, non si può prescindere da A. Sandrini, Il Settecento: tendenze rigoriste e anticipi ‘neoclassici’, in L’architettura a Verona nell’età della Serenissima (sec. XV - sec. XVIII), a cura P. Brugnoli, A. Sandrini, Verona 1988, I, pp. 334-336; con i rilievi planimetrici e la sezione longitudinale dell’interno).
3 Cfr. Facchin s.d., p. 49. A proposito del progetto di Castellazzi, Diego Zannandreis, che aveva avuto modo di vederlo, lo giudicava «molto migliore di quello del Camerata veneziano, a cui poscia appigliaronsi que’Religiosi» (D. Zannandreis, Le vite dei pittori scultori e architetti veronesi pubblicate e corredate di prefazione e di due indici da Giuseppe Biadego [ms.1831-1834], Verona 1891, p. 467). Ancora, il succitato Facchin, riporta un documento rinvenuto fra gli atti della Congregazione dove si precisava che il conte Dal Pozzo, nel luglio 1756, «per pura sua bontà e generosità», si era offerto di proporre un suo progetto; ed era anche disponibile «di farne un altro o più ancora finché la Congregazione medesima resti soddisfatta». In seguito, consegnati i disegni, si riunì una commissione apposita «a raccogliere i pareri e consensi dei ‘Professori e Intendenti’» (Facchin s.d., p. 72). Con esito, a quel che dobbiamo dedurre, negativo. Sui due architetti cfr. E. Cozzuol, Girolamo Dal Pozzo, in L’architettura a Verona... 1988, II, pp. 328-336; L. Camerlengo, Michelangelo Castellazzi, in L’architettura a Verona … 1988, II, pp. 351-354 (in particolare cfr. p. 353).
4 «Fra tutti gli abbozzi o piante di chiesa, che in tal incontro da valentuomini furon presentati, preferì la congregazione quello del Signor Andrea Camerata, eccellente architetto veneziano il quale di poi nel settembre del 1757 venne a bella posta a Verona per veder il sito, prender le giuste misure, ed intendere più distintamente i nostri desideri e bisogni»: come scrisse il prefetto Bevilacqua (ASVr., Monasteri maschili di città, San Fermo in Braida, Registri, n. 113, c.1r.) (cfr. inoltre “Notiziario della Banca Popolare di Verona”, 2001, 62, n. 1). Tra le spese minuziosamente elencate per la nuova chiesa, sono registrate 220 lire per il «viaggio dell’architetto da Venezia e suo ritorno» (ASVr., Monasteri maschili di città, San Fermo in
Braida, Registri, n. 102 bis).
5 Prima pietra «che fu messa tantosto nel fondamento del presbiterio.[…] Si diede subitamente principio alla fabbrica della nuova chiesa, e quasi tutti gli anni o poco o molto s’è fabbricato, sì che di presente [cioè nel 1775] si vede finita la cappella maggiore»: è quanto scrive il prefetto Bevilacqua (ASVr, Monasteri maschili di città, San Fermo in Braida, Registri, n. 113, c.1v.).
6 Teniamo presente che Dal Pozzo non solo aveva proposto i propri progetti gratuitamente, ma che faceva parte di una élite particolare e prestigiosa: quella consorteria di appassionati cultori di architettura appartenenti all’aristocrazia, come lo zio Alessandro Pompei o il conte Ignazio Pellegrini, che tanto opererà in Verona in quegli anni per una riforma urbana non solo nel senso di una ritrovata funzionalità, ma anche e soprattutto nel rilancio di un linguaggio che si rifacesse alla tradizione classicista. A questo proposito cfr. Sandrini (1988, pp. 261-346) e L.Olivato (L’architettura civile a Verona fra tradizione e innovazione: l’età di Scipione Maffei, in Il Settecento a Verona: Tiepolo, Cignaroli, Rotari. La nobiltà della pittura, catalogo della mostra a cura di F. Magani, P. Marini, A. Tomezzoli (Verona), Cinisello Balsamo (Mi) 2011, pp. 74-81).
7 Su Camerata si veda la completa “voce” di L. Puppi (Camerata (Camarata), Andrea, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, vol. 17, 1974, pp. 176-177), che lo definisce «personalità assai modesta […] piuttosto interessato, e usato, nell’esecuzione corretta e diligente d’invenzioni altrui che impegnato al livello della tensione creativa» (Puppi 1974, p. 177). L’architetto (Venezia 1712/1714 - 1793) avrebbe avuto però una formazione romana, ma avrebbe compiuto le prime esperienze professionali a Udine sotto la guida di Massari. In seguito pare abbia lavorato accanto al maestro (e a Temanza) in una congiuntura importante, nella risistemazione
degli edifici laterali alla Torre dell’Orologio in piazza San Marco a Venezia. Poco o nulla si sa di sue esperienze per committenza privata.
8 «Questa è stata appunto la di lui intenzione nel lavorarli con tanto studio, per risparmiarci la non picciola spesa, che pel modello vi abbisognava» (ASVr., Monasteri maschili di città, San Fermo in Braida, Registri, n. 113, c. 1r.). I disegni, si deduce, erano così rigorosi nelle misure e nei dettagli che si poteva evitare la spesa per il modello ligneo della fabbrica.
9 Cfr. ASVr., Monasteri maschili di città, San Fermo in Braida, Registri, n. 102 bis (carte non numerate): il registro è minuzioso e annota in ordine cronologico tutte le spese sostenute (nonché le elemosine e donazioni ricevute all’uopo) a partire dal 1756 fino al 1782: con il passare degli anni vanno rarefacendosi e si limitano, per dar qualche esempio, al «selciato di sagrestia» (1776), alle «statue della facciata» (1777), alla «strada innanzi la facciata rifatta» (1778).
10 Cfr. ASVr., Monasteri maschili di città, San Fermo in Braida, Registri, n.102 bis (alle date). Il rapporto con Cristofali dovette maturare nel tempo se in seguito gli venne affidata la costruzione del nuovo oratorio (distrutto nel 1945). Cfr. L. Camerlengo (Chiese e monasteri di Adriano Cristofali e M. Vecchiato (Opere di Adriano Cristofali perdute e danneggiate negli archivi della Soprintendenza), in Adriano Cristofali (1718-1788), Atti del Convegno di Studi, a cura di L. Camerlengo, I. Chignola, D. Zumiani, Mozzecane (Vr) 2007, pp. 122, 132, 193. Cfr. anche L. Camerlengo, Adriano Cristofali (Cristofoli, Cristofori), in L’architettura a Verona... 1988, II, p. 327.
11 Cfr. R. Brenzoni, Dizionario di artisti veneti. Pittori scultori, architetti dal XIII al XVIII secolo, Firenze 1972, pp. 144, 263.
12 Per la ricostruzione avvenuta, fra 1952-1954, dopo i bombardamenti aerei che colpirono il fondo absidale, cfr. Facchin s.d., pp. 54 e sgg.
13 Si rilevi come il manoscritto settecentesco della Biblioteca Comunale di Verona (ms. 2551, coll. 90.8) che riporta il rilievo della facciata “normalizzi” la soluzione adottata leggendo le strutture portanti tutte come paraste. «Da S. Giorgio riprende i quattro fusti (ma i due estremi son pilastri) d’ordine composito e di modulo gigante dell’episodio mediano, che tiene opportunamente separati; e con questi recide l’ordine minore, rappresentato da ali leggere, pure d’ordine composito» (Sandrini 1988, p. 334).
14 Sandrini 1988, p. 335.